di Sergio Rizzo
Ecco l’ultimo traditore, l’ultima mela marcia. Si chiama Riccardo Riccò, veniva considerato e si considerava il nuovo Pantani. Abbiamo letto memorabili pagine agiografiche sulla sua ascesa, ascoltato i soliti imbarazzanti commenti dei telecronisti della Tv di Stato.
In realtà, il traditore Riccò era famoso, nell’ambiente lo conoscono da bambino. Era uno dei ciclisti più chiacchierati della storia, ma godeva di una sorta di immunità (regolarmente certificata): il suo tasso di ematocrito era naturalmente alto. Cioè, era baciato dalla grazia, era più dotato degli altri. L’inchiesta nella quale ora è coinvolto cercherà di chiarire anche questo: ma quanti certificati falsi esistono nel mondo del ciclismo?
Tornando dunque al traditore, c’è da chiedersi quanto colpevole possa essere considerato Riccò. Se si hanno 24 anni, se quando sei ancora adolescente ti certificano il falso, se ti offrono contratti d’oro, se tutti sanno tutto eppure fanno finta di niente, nascondono quei certificati falsi da qualche parte, ti convocano regolarmente per le Olimpiadi, puoi davvero essere considerato un traditore? Oppure sei stato tradito tu da tutto l’ambiente? Dilemma non facile, anche se personalmente consideriamo da sempre gli atleti come vittime (spesso consapevoli, ma comunque vittime).
La verità è che non se ne può più di questo ciclismo, di questa ipocrisia, dei suoi medici dopatori e di quelli che certificano il falso, dei dirigenti che sanno tutto e ogni volta si dicono sconvolti, della Federazione Internazionale, degli organizzatori che fanno a gara a rubarsi i corridori più chiacchierati per rendere migliore lo spettacolo. In pochi lavorano davvero contro il doping, e sono osteggiati da tutti. Nel ’98 esplose lo scandalo Festina, qualche anno prima Sandro Donati aveva dimostrato che nel ciclismo c’era un uso sistematico di epo: pagò di persona le sue accuse, intanto l’epo continua ad imperare. Riccò è stato incastrato da un’azione congiunta Italia- Francia (piena collaborazione tra investigatori sportivi e polizia giudiziaria), che è riuscita a scavalcare l’ostacolo più alto, come sempre rappresentato dall’Uci ( la Federazione Internazionale).
Fermare il ciclismo, ragionarci a lungo sopra, e poi ricominciare da capo sembra, come sempre, la soluzione migliore. Per cui non se ne farà niente. Qualsiasi strategia, comunque, sarà perdente se non coinvolgerà direttamente tutto l’ambiente: non ci sono innocenti. Ma se non ci sarà un ente neutro a condurre le indagini e comminare sanzioni ( la Wada), se non dimuinirà il numero delle corse, se non si taglieranno drasticamente i chilometri e le tappe delle grandi corse, se i medici non si decideranno a fare solo i medici (preoccupandosi della salute degli atleti e non del miglioramento ad ogni costo delle loro prestazioni), ogni sforzo sarà inutile.
A meno che non si decida per il doping libero. Il che, perlomeno, permetterebbe a tutti di gareggiare alla pari, e nessuno – soprattutto il pubblico – potrebbe più considerarsi tradito ( perchè conosce le regole del gioco). Accanto a questi vantaggi, però, bisognerebbe poi mettere in conto le conseguenze. La storia non depone a favore del doping libero sotto controllo medico. Nell’ex Germania Est migliaia di ragazzi sono stati rovinati dal doping di Stato, e ne pagano le conseguenze ancora oggi. Negli Stati Uniti, padri della democrazia e del doping libero negli sport professionistici, si contano a decine i morti del baseball, del basket e, soprattutto, del football americano. Per non parlare del wrestling, vera e propria macelleria umana. Sarà un caso, ma dopo anni di doping libero, anche negli Stati Uniti sono cominciati i controlli.
Il ciclismo è ancora una volta al bivio, scelga di che morte vuole morire, o provi a ritrovare quell’essenza dello sport che sembra aver perso definitivamente. Se non si vergogna del numero sempre più alto dei suoi dopati, abbia almeno paura di quello dei suoi morti. E’ dura in un mondo che considera ancora Pantani un eroe e non un povero ragazzo morto disperatamente solo a 34 anni.
Sergio Rizzo
Fonte: Corriere dello Sport, 18 luglio 2008