Mentre si apre il processo d’appello per Calciopoli ci sono due storie che meritano di essere raccontate. Tanto per ricavarne una morale. Sono ambientate tutte e due a Roma, la capitale. Due calciatori lasciano la squadra: uno la Lazio e l’altro la Roma.
Erano beniamini delle rispettive curve, e sono due uomini di una fauna in via di estinzione. Il primo si chiama Paolo Di Canio: quasi tutti lo ricordano per il saluto romano allo stadio di Livorno, notoriamente frequentato da tifosi che non apprezzano; quasi nessuno ricorda due o tre anni prima, in Inghilterra, Di Canio si conquistò il premio fairplay e l’ammirazione di tutti per aver rinunciato ad un gol perché un avversario era a terra infortunato.
Per tornare alla Lazio – che è la squadra per la quale ha tifato fin da bambino – Di Canio aveva rifiutato offerte miliardarie da molti club, accettando un ingaggio molto molto modesto. Era l’idolo dei tifosi, ma non era amato dalla società: se n’è andato e – rinunciando di nuovo ad offerte miliardarie – ha firmato con la Cisco Lodigiani, una squadra romana di C2, per restare vicino alla sua famiglia, al suo ambiente, ai suoi tifosi.
Un uomo tutto d’un pezzo. Stessa definizione anche per l’altro protagonista: Damiano Tommasi, cuore giallorosso, una decina di campionati giocati con la maglia della Roma, una bandiera anche lui.
Due anni fa ha subito un infortunio al ginocchio molto grave. All’inizio dell’ultimo campionato si è presentato ai cancelli di Trigoria, proponendosi ai dirigenti della società per il minimo sindacale. Per chi non lo sapesse, si tratta di 1.470 (millequattrocentosettanta) euro al mese, il salario di un bracciante agricolo, o giù di lì. Sei o settemila volte meno di quel che guadagnava il suo capitano Francesco Totti. Anche lui nel prossimo anno non indosserà più la maglia del cuore. Forse emigrerà, non si sa ancora dove.
Che senso ha parlare di valori dello sport, di lealtà, di attaccamento alla maglia, e più in generale di etica, se due campioni esemplari come Di Canio e Tommasi vengono – più o meno garbatamente – messi alla porta? Che senso ha lamentarsi di come vanno le cose quando il vertice della Fifa (la Federazione internazionale) ha confermato – appena ieri – il premio a Zidane come “pallone d’oro” del Mondiale, senza allusioni (e senza recriminazioni) per il gioco di testa?
E come si può nutrire fiducia nella rifondazione del calcio italiano se i vertici della nostra Federazione non hanno protestato per l’assenza del presidente della Fifa alla cerimonia della premiazione del Mondiale e – per bocca del commissario Guido Rossi – hanno espresso una debole lamentela per la sentenza sul caso Zidane-Materazzi, annunciando (comunque) il rispetto del verdetto della Fifa? Che senso ha invocare giustizia preoccupati unicamente di far presto perché the show must go on, e il prossimo campionato deve iniziare nei tempi previsti? Perché soltanto la giustizia sportiva deve aver fretta quando gli imputati innocenti nei processi penali devono aspettare una decina d’anni per essere assolti?
E’ chiaro che il calcio è bacato per colpa del troppo denaro che circola, ma il problema non si risolve se cambia il nome del giocatore che chiama banco. Occorrerebbero altri esempi, come Di Canio e Tommasi per moralizzare l’ambiente. Ma come sappiamo tutti – la morale si trova soltanto in fondo alla favole.
Massimo Tosti
Italia Oggi, 22 luglio 2006