Con le motivazioni della Corte di Cassazione si chiude definitivamente una storia dolorosa e comunque fondamentale per il futuro dello sport. «Il calcio deve uscire dalle farmacie » disse Zeman nell’agosto del 1998. Quasi nove anni dopo la Corte di Cassazione non gli dà solo ragione, ma stabilisce che è reato somministrare farmaci senza necessità terapeutica a individui sani. Tutti i farmaci, non solo quelli illeciti secondo la definizione dello sport. Si può dunque chiudere il caso Juve con la certezza che aveva ragione l’accusa, sostenuta dal pm Raffaele Guariniello (che non ha sperperato denaro pubblico, come i maligni hanno sostenuto, ma si è limitato a fare quel che un buon magistrato dovrebbe sempre fare), che l’intero impianto accusatorio ha retto a qualsiasi tipo di assalto, che nella condotta del responsabile sanitario della Juventus, dottor Riccardo Agricola, era configurabile il reato di frode sportiva. Se fosse stato possibile applicare la legge sul doping – nata nel 2000, quindi dopo l’apertura dell’inchiesta – il reato consumato sarebbe stato quello di doping.
Restando al caso Juve, il «così fan tutti » – ritornello preferito dai legali bianconeri – non ha alcun valore dal punto di vista giuridico. Sull’epo la Corte di Cassazione ha accettato (senza condividere o meno) il comportamento della Corte d’Appello. Ma è bene sottolineare che la somministrazione di epo non faceva parte dell’impianto accusatorio iniziale, e che fu introdotta solo nel giugno del 2004, dopo la superperizia del professor Giuseppe D’Onofrio. Quello che conta di più è che la «farmacia Juventus» non poteva esistere (nei magazzini della società furono rinvenute la bellezza di 281 specialità medicinali), nè – soprattutto – che potevano essere detenute sostanze (come i corticosteroidi) che sono dopanti a tutti gli effetti.
La nuova Juve ha sinora confermato nel ruolo il dottor Agricola. Chissà se la sentirà di confermarlo dopo la lettura di queste motivazioni. Qualunque sarà la decisione, nessuno potrà far finta di non sapere che Agricola è stato prosciolto dalla magistratura ordinaria e da quella sportiva (che aveva chiesto 2 anni di squalifica) solo con la formula della prescrizione. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità, che mai come in questo caso hanno anche valore morale.
Persino più importanti sono gli insegnamenti e l’eredità che il processo lascia. Il monito più forte è per la medicina dello sport: non potrà continuare a comportarsi come ha fatto sinora. Gli atleti non sono cavie, lo sport non è un campo di sperimentazione selvaggia. La divisione tra farmaci leciti e farmaci illeciti non ha più ragione di esistere. Aveva ragione il mai troppo compianto professor Gianni Benzi (il braccio « scientifico » di Guariniello): l’atleta non è un malato da affidare alla farmacologia più esasperata. Sarebbe stato felice Benzi di queste motivazioni, non lo saranno certo quei medici dello sport che brindarono alla sentenza d’appello, che hanno stravolto lo sport. Non c’era bisogno della Corte di Cassazione per capirlo, ma per certe persone serve una sentenza, non bastano il codice deontologico e le numerose norme giuridiche e morali che tutelano il diritto alla salute e il bene di ogni singolo individuo. Meglio che qualcuno si rilegga la Dichiarazione di Helsinki o le Norme di buona pratica clinica prima di riaffacciarsi sul mondo dello sport.
L’ultimo insegnamento è per gli atleti: la smettano di considerarsi vittime, di fidarsi acriticamente di certi medici, di prendere qualsiasi farmaco per vincere una gara in più. Nessuna professione obbliga ad assumere farmaci per lavorare meglio: è inumano. Chi esce a pezzi è il mondo dello sport: sulle vittorie di quella Juve resta un’ombra, ma nessuno è riuscito mai a dirlo. La giustizia sportiva se l’è cavata con la prescrizione senza avere il coraggio di esprimere un giudizio. Qualcuno almeno chieda scusa a Zeman.
Fonte: Sergio Rizzo, Corriere dello Sport 1 giugno 2007